30 gennaio 1945: allora fu mosso il primo passo verso il suffragio femminile. Quel giorno di 75 anni fa, il Consiglio dei ministri deliberò la “concessione” del diritto di elettorato attivo e passivo, che avrebbe poi portato al Decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio dello stesso anno. “Estensione alle donne del diritto di voto”, si intitolava, con buona esclusione,
però, delle minori di 21 anni e delle prostitute.
In una Italia ancora monarchica e sugli sgoccioli della Seconda Guerra Mondiale, quella lungimirante riunione del Consiglio dei ministri che conferiva il diritto di voto politico e amministrativo alle donne fu dovuta alla pressione di Togliatti (Partito Comunista) e del democristiano De Gasperi. Una svolta che, in ogni caso, era dettata da un momento storico in cui una Nazione come la nostra non poteva più sottrarsi ai richiami di una certa modernità.
L’estensione porta la firma di Umberto di Savoia (capo del Governo era allora Ivanoe Bonomi) e fu solo un anno più tardi che le donne ebbero la possibilità di essere anche elette, oltre che eleggere.
Come si è arrivati al suffragio universale
A onor del vero, non è stato soltanto nel 1945 che si è parlato di diritto al voto per le donne. Già
secondo il Programma di San Sepolcro dei Fasci di combattimento del 1919 il diritto di voto doveva
essere esteso alle donne, tanto che Mussolini sembrava intenzionato a concedere questo diritto
“cominciando dal campo amministrativo” (una tattica per prendere più consensi), ma non se ne fece poi più nulla, sia a causa della riforma podestarile del 1926, sia per la riforma elettorale del 1928.
Anni dopo, nel clima della Seconda Guerra Mondiale (novembre 1943), il Partito comunista fondò a
Milano i Gruppi di Difesa della Donna e per l’Assistenza ai Volontari della Libertà: un’organizzazione costituita da donne unite per manifestare contro la guerra, assistere famiglie in difficoltà, supportare i partigiani. E mesi dopo, proprio i partiti capeggiati da De Gasperi e Togliatti si dissero favorevoli alll’estensione del voto anche alle donne: fu così che prese forma il decreto De Gasperi-Togliatti, meglio conosciuto come decreto Bonomi, dal nome del Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia.
Nel mese di settembre del 1944, sempre grazie al Partito comunista, a Roma fu fondata l’Unione Donne Italiane, nella quale vennero inseriti i Gruppi di Difesa della Donna e dalla quale poi prese corpo una nuova organizzazione, il Centro Italiano Femminile, di ispirazione più destrorsa e cattolica.
Nell’ottobre 1944 la Commissione per il voto alle donne dell’UDI e altre associazioni presentarono al governo Bonomi un documento nel quale parlavano della necessità di concedere il suffragio universale e verso la fine del mese sorse il Comitato Pro Voto,
volto a far conquistare il diritto di voto alle donne.
Nel gennaio del 1945, Togliatti inviò una lettera a De Gasperi nella quale affermava come inevitabile la questione del voto alle donne nell’imminente Consiglio dei ministri e fu così che il 30 gennaio 1945, nella riunione del consiglio, come ultimo argomento, si discutesse proprio del voto alle donne. La maggioranza dei partiti (si esclusero liberali, azionisti e repubblicani) si dimostrò favorevole
all’estensione. Il 1 febbraio 1945 venne emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 che
conferiva il diritto di voto alle italiane che avessero almeno 21 anni, secondo il quale le uniche donne a essere escluse erano le prostitute schedate che lavoravano al di fuori delle case dove era loro
concesso di esercitare la professione (le cosiddette “vaganti”, citate all’art. 3).
Anche dal clero ci fu un’apertura verso il suffragio: il 21 ottobre del ‘45 Papa Pio XII annunciò:
“Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione […] per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta,
per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione”.
Il decreto Bonomi tuttavia ancora non si riferiva alla possibilità di un elettorato passivo per le donne,
cioè della possibilità di essere votate. Trascorse, infatti, almeno un anno prima che le donne italiane – di almeno 25 anni – potessero godere dell’eleggibilità (Decreto n. 74 del marzo 1946).
Le prime elezioni amministrative alle quali le donne furono chiamate a votare si svolsero a partire dal 10 marzo 1946 in 5 turni, mentre le prime elezioni politiche (svolte assieme al Referendum istituzionale monarchia-repubblica) si tennero il 2 giugno 1946.
Alle elezioni del 2 giugno 1946 per l’elezione dei deputati dell’Assemblea Costituente, le donne elette risulteranno 21. Di queste, cinque (Maria Federici, Angela Gotelli, Nilde Jotti, Teresa Noce, Lina Merlin), faranno parte della Commissione per la Costituzione incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione repubblicana.
La curiosità
Il 2 giugno del 1946, il Corriere della Sera pubblicava un articolo con il quale invitava le donne a
presentarsi al seggio elettorale senza rossetto sulle labbra, pena qualche segno di riconoscimento sulla scheda. C’era, infatti, il rischio che le donne, nell’umettare il lembo da incollare, avrebbero,
involontariamente, lasciato una traccia di rossetto:
“Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne
nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque,
il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio”.
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